Una volta li chiamavano spiantati e talvolta perfino straccioni. Ma i tempi cambiano, di contesse in giro ce ne sono sempre meno e il linguaggio un po’ volgarotto in voga all’«industria di Aldo» è caduto in disuso. Oggi i padroni hanno imparato un acronimo very polite per definirli: NEET, Not in Employment, in Education or Training. Sono i giovani che non lavorano, non studiano, non si formano. La trinità del male secondo i canoni dell’occupabilità. Confindustria, evidentemente preoccupata dell’incombente perdizione che grava su giovani eternamente alle soglie del mondo del lavoro, ha lanciato una giornata dedicata interamente a loro. Con un titolo per metà evocativo e per l’altra uscito male, «Fuoriclasse!» è il nome che gli industriali hanno dato all’iniziativa svoltasi qualche giorno fa a Catania. Se dai dati di Confindustria emerge che i NEET sono una «vera emergenza» di oltre due milioni di italiani in un’età compresa tra i 15 e i 29 anni, la soluzione individuata dagli industriali sta nell’alternanza studio-lavoro. Per uscire dal mondo dei NEET non basta allora essere impegnato in una delle attività evocate dall’acronimo. Occorre piuttosto farle tutte e tre insieme. Sempre naturalmente che uno non sia sufficientemente ricco da dedicarsi all’ozio. In questo caso, è più che probabile che ci troviamo di fronte al figlio di uno di quegli industriali che ha commissionato la ricerca e, come è noto, certi acronimi possono anche acquisire una valenza positiva se appartieni alla classe «giusta».
Il problema, però, sorge dal fatto che l’industriale italiano si è sempre sentito un po’ padre di famiglia della nazione. Non può allora che sentire un peso sulla coscienza scoprendo che solo 3 trentenni su 100 hanno affiancato un’esperienza di studio a una di lavoro. Non si tratta qui dei lavoretti saltuari e spesso in nero che però sono assai graditi ai «padroncini» della ristorazione e non solo. Si tratta invece di lavori coerenti con il proprio percorso formativo. Portando i ragazzi fuori dalle aule fin dentro le fabbriche e gli uffici, sostengono gli industriali, l’attuale scenario di crisi verrebbe rovesciato. Un po’ di sana fantasia è connaturata all’imprenditorialità, dirà qualcuno, interrogandosi su quali opportunità di lavoro esistano per dei giovani alle prime armi in un contesto di crescente disoccupazione. Il punto, però, non è questo. E neanche la possibilità per il padrone di servirsi di forze fresche e necessariamente a buon mercato coglie l’intera questione. L’alternanza studio-lavoro auspicata dagli industriali si inserisce in un progetto più ampio, è un tassello di politiche dell’occupazione che si innestano in un quadro europeo. Lavoro, studio e formazione continua concorrono insieme a ridefinire un mercato del lavoro che ormai preme sui confini degli spazi tradizionali dell’occupazione. Già da qualche tempo è esondato nell’occupabilità, proprio perché, in assenza di posti di lavoro, questa rappresenta uno spazio sufficientemente elastico da assorbire un universo frastagliato di individui alla conquista di un lavoro, addestrandoli e disciplinandoli alle regole di un mercato dell’occupazione che esige totale flessibilità e il maggior numero di skills. Non a caso Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria dal cognome impegnativo, si dice compiaciuto della recente approvazione del DL Scuola, quello per cui, stando alle parole della ministra Carrozza, mai più nessuno finirà la sua carriera scolastica senza aver mai lavorato. In fondo, tra lo sdegno ipocrita dei buoni occidentali, è quello che succede già in Cina, dove gli studenti di ingegneria sono costretti a svolgere un tirocinio alla Foxconn pena il mancato conseguimento del titolo di studio. È chiaro allora che «Fuoriclasse!» non è solo il titolo di un’iniziativa di dubbio gusto, ma un progetto di governo della forza lavoro in divenire. Quest’ultima viene scaraventata in un mercato del lavoro dilatato, dove scattano meccanismi di competizione e di individualizzazione che ostacolano percorsi di comunicazione e possibilità di connessione, spianando la strada alla subordinazione complessiva.
«Fuoriclasse!» nasconde un lato oscuro, il suo lato più propriamente politico: scongiurare il pericolo che una nuova generazione di occupabili precari si riconosca come classe, disarticolando la trama di rapporti di potere che innocentemente chiamano «alternanza studio-lavoro». Per una buona volta dovremmo imparare a prendere sul serio le parole degli industriali. Anche quelle apparentemente bonarie. Per loro, infatti, i giovani sono realmente un’opportunità. E come tutte le opportunità va sfruttata. Letteralmente.