martedì , 5 Novembre 2024

La concertazione è finita. Per una discussione su sindacato, lotte e organizzazione

«La concertazione è finita». Nonostante lo scandalo – acceso ed effimero come un fuoco di paglia – provocato a luglio da queste parole, pronunciate non a caso davanti ai banchieri riuniti, Mario Monti si è limitato a registrare un dato di fatto. L’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio e la riforma del mercato del lavoro stabiliscono le condizioni materiali della fine di una lunga stagione di politica economica e di relazioni industriali. Con tecnica chiarezza, Monti ha aggiunto che la concertazione è alla radice di tutti i mali presenti, soprattutto delle difficoltà che, a causa delle colpe concertative dei loro genitori, incontrano i figli e i nipoti di lavoratori e lavoratrici quando cercano un lavoro. Avendo così chiarito i fondamenti ultimi della crisi dei rapporti tra generazioni, Monti ha potuto stabilire che la concertazione non è altro che un moltiplicatore della spesa pubblica da cancellare con un tratto di penna assieme a una buona parte di quella spesa. La concertazione è soprattutto un ostacolo presente alle politiche di investimento, e dunque alla produzione di profitto. Le parti sociali sono solo parti, alle quali il potere pubblico non è tenuto a trasferire in outsourcing responsabilità politiche e che perciò devono, con logica e letterale evidenza, farsi da parte.

Si può persino capire lo sgomento di chi per due decenni ha legittimato la propria azione politica e sindacale sulla base del fatto che c’era qualcosa da concertare. Si può capire la rabbia di chi legge giustamente nelle parole di Monti la delegittimazione di ogni difesa organizzata degli interessi dei lavoratori, siano essi precari, operai, migranti o impiegati pubblici. Conviene però partire dalla verità contenuta in quelle parole: la concertazione è finita, anche se c’è chi promette di restaurarla, però eventualmente solo dopo le elezioni, o addirittura di fare un referendum su alcune regolazioni giuridiche del rapporto di lavoro, ben sapendo che un referendum sulle condizioni del lavoro operaio non ha alcuna possibilità di successo, e mira solo a cercare un collante per formare soggetti politici altrimenti inesistenti. Piaccia o non piaccia, la concertazione non è più tra le opzioni possibili della politica industriale. L’idea è che non c’è più niente da concertare perché oggi le sacre leggi del mercato impongono comportamenti non contrattabili. La stessa politica industriale, da più parti evocata come soluzione a tutti i mali, nella speranza di un rinnovato interventismo statale e confondendo l’Italia dell’Euro con l’Argentina post-crisi, è a questo punto un concetto vuoto, appunto perché privato di quel carattere concertativo che ne ha segnato i successi nei decenni passati. La realtà è che il capitalismo italiano, non appena si trova di fronte alla classe operaia, trova più conveniente giocare alla roulette del capitalismo finanziario. Il risultato è che, nei tempi duri in cui viviamo – nonostante dalla Fiat all’Ilva, passando per la scuola, Cisl e Uil continuino a chiedere soltanto dove devono firmare – cade l’alibi di chi era concertativo «ma fino a un certo punto» come la CGIL. Anche chi, come la FIOM, non era concertativo nelle grandi vertenze nazionali, ma poi doveva concertare nella contrattazione decentrata – in certi territori con un certo successo – è investito oggi da una crisi profonda. Infine, anche i sindacati di base, che concertativi non sono mai stati, non possono più costruire la propria identità politica e la propria azione in opposizione alla CGIL concertatrice e alla concertazione come politica, perché appunto: la concertazione è finita.

La domanda che ci interessa porre è dunque: lungo quali vie sarà possibile l’organizzazione degli interessi operai nel punto in cui entrano in diretto contatto con le pretese del capitale? Non possiamo dimenticare che nonostante tutti i disagi della CGIL e la bellicosità della FIOM, mentre continuano anche in questi giorni proclami e annunci di nuovi scioperi dove nulla di nuovo sembra mai succedere, i lavoratori e le lavoratrici della CGIL e della FIOM stanno ancora aspettando lo sciopero generale promesso contro la riforma Fornero. Molti di loro comprensibilmente hanno ormai preso altri impegni non solo per i sabati dello sciopero possibile, ma anche per quando si tratta di sostenere la CGIL e la FIOM. Nonostante questa banale verità, l’affermazione che il sindacato è in crisi deve essere considerata con attenzione. È in crisi la capacità di ottenere un qualche risultato all’interno della crisi, ma non è sempre così in crisi quando si tratta di neutralizzare la rabbia montante, l’insoddisfazione, la possibilità di costruire percorsi autonomi di organizzazione. Su questo terreno resiste solo la parte del patto concertativo che prevedeva la riduzione della conflittualità in nome del presunto interesse comune nella crescita economica. La triste realtà sembra essere: poca conflittualità per poco o nulla in cambio, che non sia l’esistenza stessa di un sindacato. Qui il problema non è però il tradimento di questo o quel sindacato, ma a cosa serve il sindacato dentro all’attuale situazione globale, perché non gode di una salute tanto migliore nemmeno chi si comporta diversamente, rifiutando di cedere preventivamente alle richieste del padrone pubblico o privato e denunciando gli effetti delle politiche neoliberiste. D’altra parte, già ben prima del montismo, si era posta la questione del rapporto tra l’organizzazione confederale dei sindacati e quella dei singoli settori del lavoro: all’impossibilità strutturale di un qualche scambio politico ha corrisposto la rottura della relazione, molte volte simbolica o ideologica, tra interesse generale del lavoro e forma associativa del sindacato. Questa stessa rottura ha determinato l’evanescenza del tradizionale confederalismo del movimento operaio italiano e la ricomparsa, che molti pensavano improbabile, di una sinistra sindacale che sembra rifarsi più alle esperienze americane che ad altri modelli, come quello francese.

Le parole pronunciate da Monti di fronte ad alcuni dei suoi principali azionisti indicano allora un futuro che è già in atto e va perciò preso sul serio. Esse non segnano la scomparsa dello Stato dalla scena. Segnalano la chiara pretesa dello Stato di farsi attore e garante di un processo di ristrutturazione delle relazioni industriali che ha un profilo non solo europeo ma anche globale. Piuttosto che ostinarci a rintracciare le origini di quanto accade nel cortile di casa, dobbiamo perciò abituarci a osservare l’azione del sindacato con uno sguardo globale. Pensiamo alle vicende della Maruti Suzuki in India, con la scelta aziendale e statale di favorire solo i sindacati disposti a sostenere le politiche industriali basate sulla piena disponibilità del lavoro, e una gestione dei livelli salariali funzionale a quietare un’iniziativa operaia pericolosamente autonoma; pensiamo alle politiche governative che, nel far east europeo, fanno da cornice all’organizzazione del lavoro da parte di multinazionali del profilo della Foxconn. Queste esperienze solo apparentemente lontane danno indicazioni chiare riguardo a questo futuro ormai presente. Non tutti gli Stati si comportano oggi allo stesso modo e non tutti svolgono le stesse funzioni: il divario esistente, ad esempio, tra gli investimenti in infrastrutture o nella ricerca in posti come il Brasile, e i tagli ai quali ogni giorno assistiamo dal Portogallo alla Grecia basta da solo a mostrarlo. Ma in un contesto globale nel quale lo Stato si occupa quasi solo di stabilire le condizioni per favorire gli investimenti, il sindacato non è altro che un problema da eliminare o da addomesticare – esemplare, per tornare in Italia, è l’esclusione della FIOM dalla Fiat – perché la sua pretesa di contrattare salario o concertare reddito non può che allontanare quegli investimenti. In un certo senso, si cerca di invertire la direzione seguita negli ultimi anni dal capitale nazionale, ricreando le condizioni di irrilevanza dell’organizzazione sindacale del lavoro che a lungo hanno sostenuto i processi di esternalizzazione della produzione verso i paesi dell’est europeo o di quello che fu il terzo mondo.

Al tramonto del modello concertativo potrebbe seguire l’alba delle «politiche del reddito». Non si tratta più solo di una «politica dei redditi», antico fantasma che rischia di ripresentarsi come incubo. Il reddito sta piuttosto diventando il campo di battaglia – finora più imposto che praticato – della costante svalorizzazione del salario. I limiti alla spesa pubblica – e dunque alla gestione sociale delle politiche del lavoro – imposti dalle riforme previdenziali sarebbero così superati dalle fluttuazioni salariali: le proposte di detassare la quota di salario legata alla produttività, in particolare, vanno in questa direzione, segnalando la pretesa di rafforzare il comando capitalistico sul lavoro e la possibilità di un’intensificazione del suo sfruttamento funzionale alle esigenze della produzione di profitto. Da questo punto di vista, lo spazio della concertazione sarebbe derubricato a quello di una contrattazione capace di agire su una scala puramente locale – quando non aziendale, in ogni caso di secondo livello – destinata ad avere un peso altrettanto locale e necessariamente transitorio. In questo quadro, sembra profilarsi l’impossibilità endemica di «fare sindacato».

Paradossalmente, il sindacato persegue attivamente questa impossibilità, perché con ostinazione continua a guardare a un passato che non può essere restaurato. La proposta di una ridefinizione delle politiche industriali a favore degli investimenti per l’innovazione tecnologica e la compatibilità ambientale non coglie che la direzione imboccata mira a collocare l’Italia nel sistema della divisione internazionale del lavoro a metà strada tra i paesi a produzione tecnologicamente avanzata e quelli a basso costo del lavoro – con la prospettiva tutt’altro che remota di uno slittamento ulteriore verso il basso. E di questa politica lo smantellamento delle pratiche concertative è parte integrante. L’invocazione di politiche che «mettano il lavoro al centro» o favoriscano l’occupazione di giovani e donne tende sostanzialmente a non considerare che sono questi stessi argomenti a legittimare una continua precarizzazione del lavoro che passa per una differenziazione e frammentazione che il sindacato non fa che riprodurre, anche nel momento in cui «aggiorna» le sue categorie. Il silenzio della manifestazione sindacale del 20 ottobre sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici migranti non meno che sull’ennesima sanatoria truffa e sul razzismo istituzionale di cui è espressione sono un sintomo quanto mai evidente dell’incapacità di cogliere il quadro politico complessivo. L’indifferenza nei confronti della centralità politica del lavoro migrante è ormai una scelta consapevole, come pure l’assenza di collegamenti internazionali che vadano un po’ più in là dei convegni e delle riunioni tra funzionari. Il mantra ormai stantio per il quale il sindacato non rappresenta sufficientemente i precari ha persino i toni della beffa, nella misura in cui la precarietà è una condizione talmente generale da essere la caratteristica del lavoro nel suo complesso. Oppure, proprio per questo, quel mantra dichiara ciò che è oramai evidente, ovvero la crisi della rappresentanza sindacale in quanto tale.

Sarebbe probabilmente necessario prendere atto di una trasformazione che la vicenda dell’Ilva sembra esprimere nel modo più chiaro. La difesa del lavoro sopra ogni altra cosa da parte di un corpo operaio disposto a rischiare la morte pur di non cadere nella disoccupazione e nella povertà è la scelta obbligata che mostra l’urgenza di uscire da qualsivoglia logica compromissoria. Le istanze e le iniziative che sfuggono a questo quadro ordinato, all’auspicio di una nuova amministrativizzazione dei rapporti industriali, rischieranno sempre di essere denunciate come minaccia per tutto il lavoro, costretto alla disciplina dal ricatto padronale e dalla crisi non meno che dal richiamo a un passato ormai non più restaurabile al quale il sindacato si aggrappa per garantire la propria esistenza, qualunque esistenza purché sia. Sono in molti a sentirsi potenzialmente colpiti da questa minaccia. Forse, ciò che spaventa, qui come altrove, è la possibilità che gli operai si voltino indietro, per rivendicare il sindacato e farne un uso proprio. Quello stesso uso che proprio chi appariva in prima linea nelle lotte dell’ultimo biennio ha sapientemente impedito, tenendo le proprie strutture al riparo dai lavoratori e dai propri stessi iscritti. Ciò non stupisce, ma sarebbe ora che finisse il gioco di prestigio per cui la coazione a ripetersi di liturgie sempre uguali finisce per incarnare le possibilità della lotta. L’esito degli ultimi anni di lotta sindacale non può nemmeno essere banalmente registrato come risultato di una lotta impari, della serie «noi ci abbiamo provato, ma gli altri erano più forti». Mentre d’altra parte non si può non constatare che il sindacato è ancora guardato come una possibilità, non per quello che ha da offrire, ma perché è presente la consapevolezza che soltanto un’organizzazione di massa può dare risposta a una situazione che non è definita da questa o quella regolazione giuridica, né dalla posizione che si occupa attorno a un tavolo, ma dai rapporti di forza. Bisogna avere il coraggio di essere davvero una parte, senza farsi da parte.

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