Dopo l’articolo Insubordinazione operaia sulla frontiera dello sviluppo, pubblichiamo un aggiornamento sulla situazione alla Maruti Suzuki di Manesar, India, insieme a un’intervista con Rakhi Segal, sindacalista della New Trade Union Initiative (NTUI)
È di questi giorni la notizia che la Maruti Suzuki ha riconosciuto un aumento vertiginoso dei salari per i permanent e casual worker dell’impianto di Gurgaon, nello Stato dell’Haryana, India, firmando un accordo con il MUKU, il sindacato aziendale. Si tratta dello stesso sindacato rigettato dagli operai dell’altro impianto del colosso giapponese, quello di Manesar, poche decine di chilometri più a sud, lungo la National Higway 8. Il conflitto sul riconoscimento di un diverso sindacato sostenuto dai lavoratori, il MSEU, ha contribuito alla mobilitazione che da oltre un anno interessa questo impianto, fino al riot che, il 18 luglio, ha causato la chiusura della fabbrica per più di un mese. La situazione, in questi giorni, a Manesar è molto tesa: dopo settimane di caccia all’uomo da parte della polizia, decine di operai che si trovavano nella fabbrica allo scoppio della rivolta sono ora in arresto o ricercati. Circa 500 permanent worker sono stati licenziati, con l’accusa di aver preso parte alla sollevazione. Insieme a loro, quasi la metà dei circa 2.000 casual worker impiegati a Manesar non potrà tornare al lavoro perché riconosciuti tra i partecipanti agli scontri che hanno provocato la distruzione di macchinari, decine di feriti e la morte di un dirigente dell’azienda. Le prove sono state raccolte in modo discutibile, sulla base di poche immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso – messe fuori uso nei primi momenti della rivolta, un fatto che segnala l’organizzazione degli operai e la loro conoscenza della fabbrica, ma che ha portato diversi commentatori a immaginare una regia esterna negli scontri – e dalle testimonianze dei quadri e dei capi presenti durante gli incidenti. È evidente che la reazione della Maruti Suzuki, sempre pienamente appoggiata dalle autorità e dalla polizia dello Stato dell’Haryana, ha avuto l’obiettivo di lanciare un messaggio agli operai. La rivolta si colloca, infatti, in un ambiente di crescente conflittualità e ripresa di militanza operaia, e non è illogico pensare che l’esito violento sia stato in qualche modo favorito dall’azienda stessa, per imporre una svolta in una situazione di mobilitazione costante che va avanti ormai da oltre un anno. Dopo la rivolta, infatti, a fronte di una sospensione di oltre un mese della produzione – ripresa con un solo turno il 21 agosto, e che l’azienda dichiara tornerà a pieno regime in ottobre, dopo l’avvio del secondo turno il 24 settembre – circa 1.500 lavoratori, la metà della forza lavoro, sono stati sostituiti nel tentativo di allontanare i più attivi e intimidire gli altri. Sarebbe però ancora una volta miope vedere solo una parte, in questa vicenda che rileva tendenze e prospettive di questa nuova fase d’industrializzazione in India. R.C. Bhargava, presidente della Maruti Suzuki India, ha recentemente dichiarato in un’intervista in inglese al canale CNBC-TV18, che la Maruti Suzuki intende eliminare i casual worker nel giro dei prossimi mesi e migliorare i rapporti con i lavoratori. «Avevamo già capito, prima che tutto ciò accadesse – afferma – che il sistema dei contractor non era un buon sistema, e avevamo deciso di terminarlo, regolarizzando tutti entro marzo 2013». Il sistema del lavoro in appalto, dichiara Bhargava, «è diventato popolare nell’industria solo negli ultimi dieci anni, per oltre vent’anni non ci sono stati casual worker nelle linee di produzione, e lo abbiamo adottato per vedere come funziona». Ora, dice Bhargava, sappiamo che non funziona. In realtà, proprio lo sciopero del tessile di Bombay del 1982 rivela che l’uso di forme di lavoro che continuiamo a chiamare precario – spesso contrapponendolo a una presunta forma regolare la cui diffusione è certamente minore rispetto a ciò di cui stiamo parlando – non rappresenta una novità. Ne sono esempio i badli worker, teoricamente sostituti temporanei di lavoratori dipendenti assenti per motivi particolari, ma sempre utilizzati per comporre una parte di forza lavoro differenziata. Nell’industria tessile del dopoguerra, i badli worker erano cresciuti a dismisura e costantemente esclusi dagli accordi sindacali, e furono la componente più radicale del Grea Bombay Textile Strike del 1982-1983. È evidente che il presidente della Maruti Suzuki non sta prefigurando una rivoluzione copernicana della grande industria, ma qualcos’altro. Si tratta di un cambiamento che segnala la ricerca di nuovi strumenti di controllo della forza lavoro, capaci di rispondere alla diffusione dell’insubordinazione operaia, dopo oltre un decennio nel quale l’utilizzo massiccio di contract worker a tutti i livelli ha permesso di portare al massimo lo sfruttamento e le performance produttive delle aziende automobilistiche e manifatturiere in generale, permettendo profitti enormi. S.Y. Siddiqui, COO della Maruti Suzuki India, nel commentare gli aumenti salariali, ha dichiarato che l’azienda investe oggi nel costo del lavoro circa il 2,4-2,5% delle vendite. Il che lascia, evidentemente, un ampio margine di manovra per entrare in una nuova fase. Oggi gli operai dello stabilimento di Gurgaon, rappresentati dal MUKU, sono diventati i meglio pagati dell’India, con aumenti che hanno raggiunto anche il 75% del loro salario, oltre a una serie di benefit per le spese mediche dei familiari. Quelli di Manesar, invece, si trovano di fronte a una prospettiva difficile, descritta dallo stesso Siddiqui: «I lavoratori dell’impianto di Gurgaon hanno subito accettato la nostra offerta e il nuovo accordo triennale sarà siglato nei prossimi giorni, alla presenza dei funzionari del Dipartimento del Lavoro. Quelli dell’impianto di Manesar, tuttavia, in assenza di un sindacato dovranno accettare gli aumenti individualmente di fronte ai loro superiori. Quando avremo i 2/3 delle loro opinioni, ci faremo carico anche di loro». Dopo la rivolta di luglio, il riconoscimento del sindacato dei lavoratori, il MSEU, di cui fa parte la maggioranza degli operai di questo impianto, appare dunque fuori discussione. Nel frattempo, molti dei suoi organizzatori sono ora alla macchia. C’è dell’altro: il comportamento dell’azienda segnala una serie di tendenze riscontrabili anche in altri segmenti degli industriali indiani. Sarebbe sbagliato considerare la questione solo dal punto di vista economico: il lavoro salariato richiede infatti sempre una capacità di disciplinamento della forza lavoro, e il rapporto di capitale si presenta come rapporto sociale che deve essere costantemente rinnovato. È utilizzando questa che chiave di lettura che possiamo meglio comprendere l’esigenza, sentita da più parti, di uscire da questa fase conflittuale per impostare nuove relazioni industriali delle quali s’intravedono alcune caratteristiche: centralità dell’azienda, semplificazione legislativa che renda anche i dipendenti allontanabili, ruolo cruciale dei sindacati. Queste linee guida sono confermate anche dalla National Manufacturing Policy, approvata definitivamente nell’ottobre del 2011, con la quale il governo indiano indica l’obiettivo del prossimo futuro: entrare in una nuova fase di espansione dell’industria, che oggi conta solo per il 15% del PIL. Il testo meriterebbe un approfondimento specifico, ma si basa sull’assunto che solo l’industria, come sostengono gli analisti dell’Indian School of Business, possa supportare in modo strutturale la prossima fase di crescita indiana, dopo il dilagare dei servizi, che oggi coprono il 57% del PIL. A corollario di questo assunto, vi è la ricerca strategica di perseguire lavori qualificati e livelli di formazione capaci di far crescere e mantenere un know-how indiano. La sfida geopolitica del subcontinente, che corre lungo un rapporto ambiguo con la Cina, costantemente percepita come partner e come competitor, sulla quale puntano in molti anche in Occidente, passa anche da qua. L’obiettivo è portare ad almeno il 25% del PIL il peso dell’industria manifatturiera entro il 2025, con l’impiego di almeno 100 milioni di nuovi lavoratori nel settore per andare incontro a una crescita demografica che prevede l’ingresso di almeno 220 milioni di persone in età lavorativa entro quella data, avvicinando l’India alla Cina, attualmente primo fornitore di forza lavoro del mondo. Oltre al ricorso di nuovi assemblaggi giuridici, come le National Manufacturing and Investment Zone (NMIZ) che fioriscono lungo il Delhi-Mumbai Industrial Corridor (1483 Km), è da più parti segnalata l’esigenza di nuove politiche del lavoro. Le aziende non dovranno più sottostare ai rigidi controlli dei macchinosi e corrotti dipartimenti governativi, ma essere responsabilizzate facendo ampio uso dell’autocertificazione, provvedendo autonomamente ai servizi previsti dagli accordi e rispettando degli standard fissati a livello nazionale. Anche la crisi dei sindacati preoccupa gli imprenditori. Essa è, infatti, speculare all’aumento della conflittualità operaia, per questo gli industriali fanno un ragionamento chiaro prefigurando un tornaconto per i sindacati ‘amici’: i sindacati, nel loro stesso interesse, non devono opporsi alla flessibilità del lavoro e alle modifiche delle leggi esistenti. Come sosteneva già alcuni anni fa Sunil Kant Munjal, manager della Hero MotoCorp teatro delle mobilitazioni del 2005, infatti, «le compagnie saranno incentivate a farsi avanti e assumere, creando nuovi posti di lavoro che, a loro volta, permetteranno ai sindacati di aumentare la loro base e assumere un atteggiamento più produttivo».
Come ben documenta il blog Gurgaon Workers, che fornisce uno spaccato della vita operaia e del contesto della regione Gurgan-Manesar altrimenti difficilmente accessibile, la situazione sul campo è quanto mai fluida, e la violenza esercitata il 18 luglio ha contribuito a creare anche un certo clima di paura tra i capi e i dirigenti delle altre aziende meccaniche. Tutte cose che stanno portando i gruppi della sinistra marxista indiana – pienamente inseriti nei dibattiti globali di questi anni – a scontrarsi sulla lettura della situazione, denunciando l’arretratezza della lotta operaia alla Maruti Suzuki o celebrando la rivolta come una nuova scintilla. Tenendosi a debita distanza da contrapposizioni di questo tipo, ciò che intendiamo suggerire è che quanto sta accadendo in questi giorni vada collocato all’interno di un quadro in cui l’industria è indicata come interesse strategico nazionale, e pensare che i comportamenti operai possano esaurire, da soli, i limiti delle sinistre politiche, così come il relegarli nell’ininfluenza, sono atteggiamenti da rigettare in blocco.
Anche il sindacato – il suo ruolo, la sua organizzazione, il suo rapporto con gli operai e con le istituzioni che indicano queste lotte – è una questione che rimane centrale e viva, che non può essere derubricata facilmente e interpretata a senso unico, in presenza di una classe operaia capace di esprimere un’autonomia di comportamenti tale da permetterne un uso operaio. Come già rilevato nel nostro precedente contributo, l’azione del sindacato è qui presa nella contraddizione tra la richiesta operaia di un’azione visibile e un immaginario legato a un modello classico di rappresentanza del lavoro, imbrigliata nelle lotte per il riconoscimento giuridico della stessa. Mentre le esigenze dello ‘sviluppo’ paiono frantumare l’autorità dello Stato all’interno delle SEZ o delle NIMZ, questo conflitto mostra anche come questa autorità sia sempre presente e pronta a intervenire, con l’uso della forza, l’imposizione del diritto, la pianificazione strategica degli usi del territorio. In questo contesto, la lotta sul salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita si presenta come un motore potente della modificazione sociale in atto lungo il Delhi-Mumbai Corridor e in molte altre aree dell’India. Mentre scriviamo, per limitarci a un esempio, giungono notizie di scioperi alla Hunday di Chennai, nel Tamil Nadu, contro il licenziamento di diversi operai responsabili di aver invitato i lavoratori della logistica, affidata alla società TVS, a un meeting organizzato dalla Hunday Motor India Employees Union (HMIEU). Alla Hunday lavorano circa 4.000 operai, di cui meno di un terzo permanent worker. Gli impiegati dalla TVS sono circa 1.300. Come accaduto a Manesar, in passato i 1.500 permanent worker si sono uniti allo sciopero dei loro colleghi, una mossa che non è avvenuta questa volta, anche se ci sono stati segni concreti di solidarietà. Nelle stesse ore, la United Union of Hunday Employees (UUHE), ha avanzato la richiesta di aumenti salariali, rifacendosi al precedente della Maruti Suzuki. Richieste simili stanno avvenendo in altre grandi aziende del settore, come la Honda e la Hero. Sarà da vedere, in tutti questi casi, se ci sarà anche una comunicazione capace di uscire dai confini dei singoli impianti, come i diversi sindacati opereranno per allargare o restringere la mobilitazione, e quale sarà l’impatto di una composizione operaia sempre più simile tra le diverse fabbriche. Mentre esprimono momenti di azione autonoma di classe, queste lotte spingono verso un’ulteriore trasformazione delle condizioni esistenti di produzione e riproduzione della società capitalistica, imponendo il loro marchio su quello che si usa definire ‘sviluppo’. Un problema non nuovo o, se vogliamo, classico, che ripropone, dal nostro punto di vista, la questione dell’organizzazione.
Alle questioni sollevate nel precedente intervento, si aggiungono ora i nuovi spunti che ci fornisce Rakhi Segal, della New Trade Union Initiative, sindacato autonomo non presente alla Maruti Suzuki, ma molto attivo nell’appoggiare la lotta degli operai, che abbiamo raggiunto di nuovo nei giorni scorsi e con la quale abbiamo affrontato alcune delle questioni rimaste aperte dopo la rivolta del 18 luglio.
I lavoratori che occupavano l’impianto a luglio vengono dall’esperienza delle lotte del 2011. Queste lotte erano riuscite a cambiare qualcosa?
La situazione era leggermente migliorata dal punto di vista dei carichi di lavoro, sulle linee c’erano più cambi, era diventato più facile avere una licenza o andare in bagno. Ma la questione del sindacato, la richiesta di vedere riconosciuto un sindacato indipendente scelto dai lavoratori per andare al tavolo delle trattative, e attraverso la contrattazione collettiva affrontare le loro richieste, non era stata affrontata.
La composizione di questi operai era cambiata dopo gli scioperi del 2011?
No, era rimasta sostanzialmente la stessa, dopo che l’azienda era dovuta tornare indietro rispetto al tentativo di allontanare chi era più vicino al nuovo sindacato.
Sono operai giovani, cosa significa questo sul piano delle loro aspettative, e di come s’immaginano il loro essere operai?
Bisogna capire che molti dei lavoratori, soprattutto quelli che adesso stanno subendo il licenziamento, i casual worker che non saranno richiamati, e quelli che sono indicati nei rapporti della polizia, sono quelli che erano più attivi e impegnati nelle attività sindacali. Molti vengono da famiglie di contadini di ceto medio dalle zone settentrionali dell’Haryana. I contadini in Haryana (soprattutto la casta agricola degli Jats), non vengono da un passato di relazioni feudali, e non hanno un’esperienza storica di relazioni servili. Per questo, non sono abituati a chinare il capo o ad accettare l’oppressione come fosse un destino. Sono fieri e affermano la loro identità Jat, una casta dominante nel mondo agricolo. Tuttavia, dagli anni ’70 e ’80 del ‘900, molti figli di agricoltori hanno deciso di abbandonare il lavoro agricolo e hanno scelto impieghi governativi nella polizia, nell’esercito o nell’amministrazione. Più tardi, dagli anni ’90 e soprattutto nei duemila, quando la cintura industriale di Gurgaon è decollata, hanno cominciato a frequentare gli Istituti Tecnico Industriali e a cercare lavoro nelle industrie di Gurgaon. Gran parte dei lavoratori ha tra i venti e i trent’anni, ben istruiti, hanno fatto due anni di pratica negli istituti tecnici, parlano un inglese basilare, anche se non fluente. Questi lavoratori sono istruiti e hanno abbastanza esperienza da capire che i carichi e l’intensità di lavoro si sono impennati, che la produttività è salita vertiginosamente (come ci ha detto un lavoratore, quando è entrato si producevano 160 auto per ogni linea, oggi se ne fanno 430 – un insieme dell’aumento dell’intensità di lavoro e di crescita della produttività), eppure gli operai non hanno ricevuto nessuna parte di questa crescita, né in termini di aumenti salariali, né come miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Sanno benissimo che i profitti sono aumentati del 2000% da quando hanno iniziato a lavorare qui, che i salari dei CEO sono aumentati del 450%, mentre i loro salari sono aumentati solo del 5% negli ultimi cinque, sei anni. E oltre a tutto questo, a causa della politica d’impiego della Maruti Suzuki, molti hanno fornito lavoro alla compagnia per 5-6 anni, prima come apprendisti per tre anni, poi come casual worker per altri due, per poi essere assunti nella categoria J1. Solo dopo un anno di J1 possono sperare di guadagnare di più del salario minimo, intorno alle cinque, seimila rupie. Si sentono imbrogliati perché oggi, quando sarebbe il momento di iniziare a guadagnarci qualcosa, la compagnia gli nega la possibilità di formare un sindacato e contrattare collettivamente. E li vuole espellere perché chiedono che il loro diritto costituzionale a formare un sindacato sia rispettato. Si guardano intorno nella Millenium City di Gurgaon, sono circondati da uno stile di vita al quale vogliono accedere. Hanno delle aspirazioni personali, per la loro famiglia, i figli. Pensano di essersi guadagnato il diritto a sognare e a far parte di questo stile di vita – perché hanno dato sangue e sudore alla compagnia. Pensano di meritarsi un trattamento migliore e lottano per questo.
La rivolta del 18 luglio è stata innescata da un insulto verso un lavoratore Dalit. Questo è un segnale che la questione delle caste si fa sentire dentro le fabbriche?
Noi (NTUI) abbiamo riportato nei nostri comunicati quanto abbiamo saputo e quello che ci è stato detto dagli operai. C’è stata un’offesa verso un lavoratore Dalit. Non abbiamo enfatizzato questa circostanza. La questione però esiste, anche se neanche noi abbiamo chiara la situazione complessiva. In questa cintura industriale, ad esempio, non abbiamo avuto a che fare con lavoratori di caste superiori che dicono che non vogliono lavorare vicino a Dalit o Musulmani, l’altro grande pregiudizio in India. Tempo fa, ad esempio nell’industria tessile, questa era diventata una questione scottante: il filo doveva essere leccato per farlo entrare nella cruna dell’ago, e gli operai che venivano da caste più elevate spesso rifiutavano di lavorare insieme a lavoratori Dalit, perché leccare lo stesso filo, era per loro impensabile, li avrebbe resi impuri… situazioni così estreme non capitano qui, o almeno non sono di mia conoscenza. Ora il fattore casta agisce anche in modo più subdolo, ad esempio, molti contract worker sono Dalit o membri di gruppi sociali marginali. È una questione aperta, sulla quale dovremo ragionare ancora per molto.
Nelle settimane dopo la rivolta, anche i dirigenti della Maruti dicono che è ora di chiudere l’esperienza del lavoro in appalto e degli intermediari. Questo indica un cambiamento reale?
L’incidente della Maruti ha certamente fatto irrompere il lavoro in appalto nel dibattito, la questione delle condizioni d’impiego, delle relazioni regolari e quelle non regolari è ora in prima linea. Nessuna delle parti cederà così facilmente. Ogni cambiamento è comunque il risultato della lotta di classe, quanto è successo alla Maruti e altri casi simili sono segnali di una crescita nella militanza della classe operaia. È presto ora per dire se questo si allargherà o produrrà alleanze con altri segmenti di lavoratori.
Pensi che questa lotta indichi un limite della forma sindacato?
No. In realtà mostra ai sindacati la direzione nella quale devono andare il movimento operaio e il sindacato.
È vero che gli operai dell’impianto di Gurgaon avranno ora un aumento salariale anche del 75%? Qual è la situazione in Manesar?
Sì. Ma l’accordo sul salario vale solo per l’impianto di Gurgaon. Gli operai di Manesar accetteranno un accordo solo se siglato dal loro sindacato. In questi giorni, ad esempio, hanno rifiutato la proposta dell’azienda di formare comitati interni per raccogliere le richieste e le lamentele, e affrontare le questioni mediche. Alcune centinaia di operai hanno discusso durante la pausa e hanno rifiutato, perché molti di loro sono ancora in arresto e vogliono il loro sindacato. Le tensioni e i problemi a Manesar continueranno.