di GIORGIO GRAPPI*
Il 30 ottobre 2011, accompagnato dalle proteste delle popolazioni locali contro gli espropri effettuati per la costruzione del Buddh International Circuit, il circus della Formula 1 è sbarcato in pompa magna a Greater Noida, nello Stato indiano di Uttar Pradesh. Pur rappresentando una goccia nel mare delle tensioni che attraversano l’India, lo spot voluto dal governo per riparare il parziale fiasco d’immagine dei Giochi del Commonwealth del 2010 ha in parte funzionato. Anche se si è tenuto in una fase di frenata dell’economia indiana, che risente della crisi globale e deve scontare un calo nella crescita del PIL impennatasi nell’ultimo decennio, le autorità indiane lo hanno dimostrato: si può organizzare un Gran Premio di Formula 1 nei dintorni di New Delhi.
Non era in discussione la capacità tecnologica del gigante Sud Asiatico, quanto la possibilità di domare una popolazione irrequieta e spesso ingovernabile, come dimostrano i numerosi conflitti accesi nel paese. La prova di efficienza del governo è stata duplice. In tempi rapidi, esso ha garantito la costruzione del circuito e delle infrastrutture necessarie, attingendo all’arsenale di assemblaggi giuridici sperimentati a partire dagli anni ’90 – rispolverando anche pezzi di legislazione coloniale come il Land Acquisition Act del 1894 – per permettere la svolta liberista nel paese superando le legislazioni esistenti in tema di lavoro e indirizzo dell’attività economica, il cosiddetto Licence Raj. Allo stesso tempo esso ha represso con la forza le proteste che ogni volta accompagnano l’avvio di grandi progetti nel paese. Lo ‘sviluppo’ ha infatti fame di terra, letteralmente di spazio da sottoporre a distruzione creatrice per potervi produrre i propri strumenti e farli funzionare, oltre che di mani, braccia e cervelli da mettere al lavoro. Certo, in tutta la regione a sud di New Delhi, fino a oggi le forme di resistenza alle dinamiche di spossessamento non hanno raggiunto la forza della sollevazione aperta, come accaduto invece in West Bengala. Lo stesso può dirsi per Gurgoan e Manesar, nello Stato dell’Haryana, dove le grandi case automobilistiche hanno avuto vita più facile rispetto alla Tata, che ha dovuto rinunciare a impiantare la produzione della Nano in Singur, abbandonando un impianto già costruito per sfuggire alle proteste popolari e all’atteggiamento ambiguo del governo.
È qui, a una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal Buddh International Circuit e altrettanti di scalcinata autostrada dal centro di New Delhi, che ha inizio quella che si candida a diventare la più grande area industriale dell’India, lungo l’autostrada nazionale numero 8, asse intorno al quale si sviluppa il mastodontico progetto del Delhi-Mumbai Industrial Corridor (DMIC). Ed è qui che si è verificata una delle ultime rivolte operaia indiane, o forse una delle prime dell’India che verrà.
Dal 18 luglio, infatti, lo stabilimento della Maruti Suzuki – il maggior produttore di automobili in India – di Manesar è chiuso. Dopo alcune settimane, il gabbiotto della security che vigilava l’ingresso del personale è ancora annerito dai fumi di un incendio, decine di macchinari sono distrutti e lunghe file di Swift, l’auto più venduta nel crescente mercato indiano, giacciono ammaccate nei parcheggi. Oltre novanta funzionari e capi reparto – due dei quali giapponesi – feriti, il responsabile delle risorse umane, Awanish Kumar Dev, morto tra le fiamme, un crollo complessivo della produzione del gruppo di circa il 40%: sono gli effetti della rivolta operaia scoppiata dentro lo stabilimento il 18 luglio. Una rivolta scatenata all’improvviso, ma con radici lontane, che ha mostrato tutta la capacità degli operai di organizzarsi e agire in modo coordinato puntando dritto agli uffici della sicurezza e distruggendo il sistema di riprese a circuito chiuso. Pare che l’incidente sia scoppiato dopo un insulto rivolto da un capo reparto a un lavoratore Dalit, come sono chiamati i fuori casta. Ma ciò che è seguito all’insulto, la rabbia e la solidarietà operaia che ha rivelato, vengono da lontano: è infatti da oltre un anno che gli operai sono in continua ebollizione. Alla base dell’agitazione, la situazione prodotta dall’esorbitante aumento della produzione, quasi triplicata negli ultimi cinque anni, e dalla grande performance sul mercato azionario della casa giapponese, spinta dalla Swift e dai motori diesel realizzati qui, a Manesar, cui non è corrisposto alcun miglioramento delle condizioni di lavoro.
Al contrario, come in tutta l’immensa area industriale che si sviluppa a sud di New Delhi, nell’ultimo decennio è cambiata la composizione operaia, con l’ingresso massiccio di casual workers. Dei circa quattrocentomila lavoratori – circa 100 mila solo a Manesar – impiegati in una fascia industriale che per il momento si estende per oltre 40 chilometri, infatti, tra il 50 e il 60% sono oggi casual workers, ossia precari assunti da intermediari anziché dall’azienda nella quale lavorano, come accade invece per i permanent workers. Questa organizzazione della forza lavoro vale sia per le piccole aziende sia per quelle grandi, come appunto la Maruti Suzuki, che nello stabilimento di Manesar, ad altissima automazione, impiega circa seimila lavoratori. Nel complesso, i sindacalizzati non sono più del 15-20%. Mentre i permanent workers sono assunti direttamente dall’azienda con contratti a tempo indeterminato, i casual workers sono dipendenti a termine di contractors e subcontractors – i thikedar –, e arrivano a guadagnare anche un terzo rispetto ai primi. Se un operaio assunto come permanent worker può guadagnare 14 o 15.000 rupie (poco più di 200 euro), il salario di un casual worker è di circa 6.200 rupie (poco meno di 90 euro). Ma qui finisce la differenza tra i due, perché condividono reparti, mansioni, ritmi di lavoro. E, di conseguenza, problemi e rivendicazioni.
Questa nuova composizione operaia è costituita in gran parte da giovani provenienti dai villaggi della regione – circa il 70% dall’Haryana – appartenenti a famiglie che si erano potute permettere un ciclo di studi e che ambivano, con l’ingresso in Maruti Suzuki, a fare un salto sociale verso il progresso e il celebrato nuovo ceto medio indiano. I salari di un lavoratore dell’industria, infatti, sono enormemente più alti del guadagno medio di un povero indiano o di un lavoratore agricolo e non sono soggetti alla variabilità dettata dalle stagioni e dalla condizioni climatiche. Gli effetti di questa nuova composizione operaia sono esplosi lo scorso anno, con uno sciopero iniziato a giugno e veramente concluso soltanto nella seconda metà di ottobre.
Molti giornali, in India e nel resto del mondo (anche in Italia si è avuta qualche notizia di quanto stava accadendo), hanno parlato della questione nei termini di un conflitto sindacale. La rivendicazione principale dei lavoratori riguardava infatti il riconoscimento di un sindacato autonomo dentro lo stabilimento, contro quello giallo (o aziendale) imposto dal management della Maruti Suzuki e già presente nell’impianto di Gurgoan, dove era stato istituito all’inizio degli anni duemila dopo la sconfitta delle prime lotte operaie. Continuando a seguire la vicenda sindacale e associandola a quella della rappresentanza dei lavoratori, pochi si sono interrogati sui motivi che spingevano a questa richiesta e su quelli della forte solidarietà operaia.
Dietro la cortina fumogena del conflitto sindacale si celava lo scontro sui ritmi di lavoro, sui salari e sulla precarietà. Avvicinandosi agli operai che per settimane hanno presidiato l’impianto dall’esterno, emergeva chiara l’immagine delle condizioni interne allo stabilimento: sottoposti alla rigida supervisione dei capi reparto, gli operai erano costretti a lunghi turni, con solo tre pause giornaliere, due di 7 minuti e mezzo per il tè, una di 30 minuti per il pranzo, al di fuori delle quali era impossibile fermarsi, se non dimostrando gravi motivi di salute, mentre un minuto di ritardo poteva costare mezza giornata di salario. Durante i turni, i carichi di lavoro crescevano costantemente grazie alle performance sul mercato della Maruti, in particolare della piccola Swift, il cui prezzo di mercato varia tra le 450 e le 650 mila rupie (6500-9500 euro), inarrivabile per chi la produce, e dei motori diesel Suzuki montati sugli altri modelli prodotti nell’impianto di Gurgaon. La Swift non è soltanto un prodotto, è ormai un simbolo della nuova India: basta circolare in qualche metropoli indiana per accorgersi di come questa piccola auto, in Europa considerata un’utilitaria, sia uno dei simboli della nuova classe media indiana, per quanto il termine sia problematico: solo un’esigua minoranza di benestanti, infatti, può considerarsi classe media. Essi possono accedere a livelli di consumo nettamente più elevati rispetto alla maggioranza della popolazione, ma soffrono una distanza incomparabile rispetto alla manciata di ricchissimi milionari.
L’azienda ha visto un aumento vertiginoso della produzione: se nel 2006 la fabbrica produceva 160 vetture per ogni turno di otto ore, nel 2011 si era arrivati a 430, quasi tre volte tanto. «Questo – mi racconta Rakhi Segal della New Trade Union Initiative, un sindacato emergente al di fuori delle grandi Union legate ai partiti – è accaduto mentre in tutto il settore dell’auto si è andati verso il lean manifacturing importato dalle multinazionali giapponesi, e di multi-skilling dei lavoratori. Alla base ci sarebbe anche l’insegnamento agli operai di almeno 2-3 mansioni, in modo da poter essere interscambiabili. In realtà, gli operai sono sovraspecializzati e il multi-skilling – come vedremo in seguito – viene utilizzato arbitrariamente dalle aziende che non insegnano certo loro le competenze per governare l’intero ciclo produttivo».
È di queste cose che hanno iniziato a parlare gli operai mesi prima dell’inizio della protesta. E del fatto che la proprietà approfittava dei gruppi linguistici e delle diverse provenienze per trattare separatamente con loro, immettendo casual workers nei reparti e aumentando i ritmi di lavoro. Come raccontano alcuni di questi operai, «l’unica differenza tra permanent e casual workers è che i primi possono mettere da parte qualcosa alla fine dell’anno, mentre tutti gli altri no».
Molti di questi operai arrivano da regioni limitrofe, a volte non troppo lontane in termini di chilometri, ma lontanissime se consideriamo la velocità dei trasporti popolari e le condizioni della viabilità indiana; essi vivono nei villaggi dei dintorni, dove le famiglie contadine o i piccoli proprietari anche solo della propria abitazione si sono trasformati, da quando è arrivata la fabbrica, in imprenditori immobiliari, causando un aumento vorticoso dei prezzi dei terreni, delle case e degli affitti. Si è così prodotta una perversa comunanza d’interessi tra questi e gli operai, con i primi che sostengono i secondi nelle loro rivendicazioni, con l’unico obiettivo di mantenere in vita la fabbrica e poter ancora affittare o vendere i propri terreni a prezzi sempre maggiori. In molti casi, infatti, i contadini hanno investito la compensazione ricevuta in seguito alla requisizione delle terre in parte per pagare i debiti accumulati e in parte nella costruzione di alloggi per operai: una stanza è affittata per circa 2.000 rupie (circa 30 euro) e alcuni di loro possiedono ora fino a cinquanta stanze, che possono ospitare quattro operai ciascuna. Un capitale. Il rapporto dei contadini con la terra è complesso: non è solo questione di sussistenza, ma anche di un insieme di rapporti sociali costruiti intorno al possesso di un appezzamento senza il quale, ad esempio, diventa più difficile poter sposare i figli. Quasi tutti gli operai si sono dati alla macchia dopo la rivolta del 18 luglio, temendo giustamente la ritorsione poliziesca e quella organizzata dalla Maruti Suzuki e questo fa temere a questi proprietari di perdere la base dei loro guadagni: «la compagnia mi ha preso la terra, e ora questo incidente si prende la mia vita», ha dichiarato uno di loro al quotidiano «The Hindu». Non è tutto, perché la Maruti Suzuki, come altre grandi compagnie della zona, è stata molto abile a coinvolgere la popolazione locale distribuendo contratti per varie attività secondarie alla produzione – come i trasporti e le mense – a personaggi chiave dei villaggi circostanti. Come spesso accade, nonostante le promesse di lavoro che accompagnano la requisizione di terre, per una specifica politica aziendale sono entrati in fabbrica non gli abitanti delle zone circostanti, ma solo persone provenienti da zone più lontane. Per molti la fine dell’attività agricola ha significato perciò l’apertura di botteghe, teashops, negozi di barbiere, rivendite di CD e DVD contraffatti e ogni altro tipo di attività destinata agli operai, una scena che si ripete in tutti gli scenari dello sviluppo indiano[1]. Questa situazione è stata piegata dai media e dal management al fine di enfatizzare l’isolamento degli operai e dipingerli come egoisti, intenti a difendere un loro interesse personale contro la comunità, o peggio contro la nazione all’inseguimento del progresso. Questo quadro si compone però anche di un’altra immagine: quella della solidarietà e dell’appoggio ottenuto per mesi dagli operai durante la mobilitazione dello scorso anno, durante la quale hanno potuto contare sul sostegno materiale di molti abitanti dei villaggi circostanti. In un modo o nell’altro, la fabbrica non ha trasformato solo chi vi è entrato come salariato, ma anche un’intera area che, da agricola, è diventata di fatto dipendente da quei salari.
Come spiega ancora Rakhi Segal, molto attiva nell’appoggio esterno alla mobilitazione (l’NTUI, infatti, non è presente alla Maruti Suzuki), gli operai hanno iniziato a incontrarsi regolarmente nelle mense e fuori dall’orario di lavoro, per gruppi linguistici e di provenienza. Per mesi, ogni gruppo nominava dei portavoce per confrontarsi con gli altri operai sulle condizioni di lavoro. Per tutti i problemi principali erano rappresentati dai ritmi di lavoro, dalla divisione imposta dall’impiego di casual workers e dai bassi livelli dei salari. Gli operai più ‘anziani’ erano a conoscenza delle lotte che nell’area industriale avevano portato a quella situazione: quelli del 1999-2000 alla Maruti Suzuki in Gurgaon, e quello della Honda Motors and Scooters del 2005. Queste lotte, avvenute dopo anni di relativa tranquillità e imposizione di rigide condizioni di lavoro da parte delle grandi aziende, rappresentano l’inizio della nuova fase di insubordinazione operaia nella regione. A innescare la protesta era stata un’offesa discriminatoria, in questo caso nei confronti di un lavoratore Sikh: uno dei vice-presidenti della compagnia, noto per essere violento nei confronti degli operai, gli aveva tolto il turbante in segno di disprezzo, provocando la reazione dei suoi colleghi. La protesta che ne seguì terminò con duri scontri tra operai e polizia, arresti, l’imposizione di licenziamenti volontari per assumere casual workers e l’imposizione di un accordo di buona condotta fatto sottoscrivere ai lavoratori. Anche in questo caso, la mobilitazione puntava alle condizioni di lavoro e alla formazione di un sindacato autonomo dei lavoratori, fortemente contrastato dall’azienda, che ricorse a ogni mezzo per stroncare l’unità raggiunta tra gli operai. Dopo il 2005, qualcosa nel dispositivo di sfruttamento si era rotto. Gli operai della Maruti hanno deciso che il nemico più forte era la divisione imposta dall’utilizzo massiccio di contractors e subcontractors. Così, mentre la grande stampa si interessava alle querelle legali riguardanti il riconoscimento formale di un nuovo sindacato, il MSEU (Maruti Suzuki Employees Union) al posto del giallo MUKU (Maruti Udyog Kamgar Union), la lista delle rivendicazioni covava sotto la cenere.
Prima delle agitazioni del 2011, gli operai hanno organizzato numerosi scioperi, consultandosi a volte con i sindacati delle aziende confinanti e riuscendo, in alcuni casi, a coinvolgerli nella mobilitazione. Fino a quando l’azienda ha deciso di sospendere una quarantina di permanent workers tra i più attivi e ha chiesto a tutti i lavoratori la firma di un ‘accordo di buona condotta’ nel quale, come già alla Honda nel 2005, gli operai si impegnavano a non scioperare, non sabotare la produzione e non aderire ad alcuna mobilitazione sindacale. Dopo lo sciopero e dopo una serrata di 32 giorni, i lavoratori hanno accettato di firmare l’accordo che tuttavia, non appena ripresa la produzione, l’azienda ha cominciato a boicottare attraverso lo spostamento dei lavoratori tra i reparti che ha immediatamente fatto abbassare i livelli di produttività. «Come puoi pretendere la produttività se sposti una persona dal lavoro che sa fare? – protestano gli operai – Hanno spostato le persone dai settori che conoscevano a settori diversi, poi hanno detto che la produttività è calata. È una vecchia storia: già è successo nel 1999-2000 con gli scioperi di allora. Lo fanno per stancarci, per mettere pressione sui lavoratori. Nel 2000 – anno di fondazione del MUKU – hanno chiesto ai lavoratori di licenziarsi volontariamente. Questa volta non ci riusciranno». In questa situazione, gli operai hanno deciso nuovamente di scioperare e, questa volta, l’azienda ha permesso il rientro in fabbrica dei soli permanent workers, lasciando nuovamente fuori i lavoratori sospesi e tutti i casual workers. È in questa situazione che abbiamo raccolto queste voci parlando con gli operai al presidio allestito fuori dallo stabilimento, mentre all’interno circa duemila operai erano in sit-in, guardati a vista dalla polizia, senza acqua né cibo a causa della sospensione, da parte dell’azienda, di ogni comunicazione fisica con l’esterno. Eravamo gli unici ‘estranei’, eccezion fatta per un piccolo gruppo di studenti armati di telecamera che hanno lasciato la zona quando è scesa la sera, e l’unica luce al di fuori dei lampioni di sicurezza degli stabilimenti era il fuoco acceso dagli operai per farsi forza.
Questi operai ci hanno spiegato le dure condizioni di lavoro all’interno dello stabilimento, elencando le loro richieste: eliminazione degli intermediari come contractors e subcontractors e assunzione diretta da parte di Maruti Suzuki di tutti i lavoratori, uguali condizioni salariali per tutti, riconoscimento di ferie e malattia – oggi infatti i casual workers sono pagati sulla base dei giorni lavorati e ogni assenza viene scalata dal salario – allungamento delle pause, apertura di un ambulatorio medico all’interno dell’azienda per certificare quando un lavoratore deve assentarsi per motivi di salute o fornire soccorso, alleggerimento dei ritmi di lavoro sulla base della loro esperienza: «siamo noi – ci dicono – che costruiamo le macchine e mandiamo avanti i macchinari, noi sappiamo quanto lavoro serve per ogni mansione: se per fare una certa cosa servono tre operai, ci devono essere tre operai, non due». Essi inoltre chiedono la creazione di un servizio di trasporti gratuito negli orari del cambio turno, in parte presente prima della mobilitazione e poi sospeso dall’azienda. Quando chiediamo se pensano di ottenere tutto questo con il riconoscimento di un loro sindacato, ci rispondono che con quel sindacato potranno lottare e trattare con l’azienda, che non potrà più ignorarli. Essi rifiutano di essere rappresentati da un sindacato che non li ha mai incontrati prima di un accordo e che, con i suoi uffici a Gurgaon, si disinteressa dell’impianto di Manesar. Per questo, ritengono fondamentale, per raggiungere gli obiettivi e costringere l’azienda a trattare, togliere ogni legittimità al MUKU.
Quella degli operai della Maruti Suzuki non era dunque soltanto una lotta per il sindacato, ma per certi versi anche una lotta contro il sindacato per come ha funzionato sin qui nell’industria, una lotta per la trattativa con l’azienda e una lotta contro questa trattativa. Tra gli operai iniziava a farsi strada l’idea che il loro problema non fosse isolato dall’insieme dei rapporti di lavoro, e che la piaga dei casual workers fosse tutto tranne che un problema della Maruti Suzuki. Nell’India contemporanea, la lotta per il riconoscimento dei sindacati all’interno dei posti di lavoro è una delle poste in palio, una posta politica: è evidente infatti che gli Stati utilizzano la propria discrezionalità nel riconoscere o meno i sindacati in base al peso politico delle aziende in questione e alle priorità di sviluppo, facendone anche un elemento di concorrenza. Si pensi ad esempio al successo del Gujarat, Stato quasi interamente attraversato dal progetto del DMIC e diventato sotto la guida di Narendra Modi – nazionalista Hindu del BJP, prima noto per il suo ruolo ambiguo durante i riots antimusulmani del 2002, che fecero più di mille morti e portarono alla distruzione di molte attività economiche gestite da musulmani e oltre 70.000 profughi, di cui 60.000 musulmani – una delle mete preferite delle grandi aziende grazie all’ambiente favorevole. È qui, per fare un significativo esempio, che si è trasferita la Tata dopo la vicenda nel Singur, ed è qui che in molti in Haryana temono si trasferirà la Maruti Suzuki, andando ad aggiungersi a General Motors, Ford, Peugeot Citroen e altre grandi multinazionali. Una competizione, quella tra gli Stati indiani per accaparrarsi gli investitori stranieri, che alcuni considerano indispensabile proprio perché – sostiene un post su Breakingviews.com – «può porre un freno alle forze politiche che vogliono rendere alcuni settori non competitivi». Si tratta in questo caso di una partita su cui si gioca anche il ruolo di Modi – possibile candidato alla presidenza del paese nei prossimi anni – nel BJP e a livello nazionale.
La nuova composizione della forza lavoro industriale, con l’impiego massiccio di casual workers, ha visto inoltre i sindacati tradizionali spesso al palo, e ha reso questo scontro centrale, poiché spesso i lavoratori si sono trovati a dover combattere contro il padrone e contro le commissioni del lavoro, pronte a riconoscere l’iscrizione coatta degli operai ai sindacati gialli e molto restie a riconoscere ogni altra iniziativa. L’accusa di essere mossi da fini politici, comune alla vicenda della Maruti Suzuki come in altre, rivela l’assoluta allergia delle imprese protagoniste della crescita indiana a ogni regola che limiti l’arbitrio padronale. Lo dice con parole molto chiare R. Sethuraman, vice-presidente e responsabile del settore finanza della Hunday Motor India Ltd, nel corso di un’intervista rilasciata il 6 agosto a «Business Standard»: secondo il manager «il governo dovrebbe sostenere un ambiente industriale favorevole mantenendo legge e ordine e supportando le industrie contro le forze di disturbo». E aggiunge: «sarebbe d’aiuto se non imponesse il riconoscimento di sindacati sostenuti da forze politiche esterne, che portano alla turbolenza industriale». Sethuraman suggerisce anche alcune misure finalizzate a migliorare l’ambiente di lavoro nell’industria automobilistica del Tamil Nadu, cui l’articolo fa riferimento come la Detroit dell’India, attraversata da tensioni legate allo sfruttamento dei casual workers: le aziende dovrebbero avere la possibilità di fissare autonomamente gli orari di lavoro e i salari adeguati, e il principio dell’autocertificazione dovrebbe essere affermato. L’esempio proposto da Sethuraman è il seguente: «per eseguire le visite mediche, la responsabilità dovrebbe essere affidata all’ufficiale medico della fabbrica, anziché al medito certificatore nominato dal Governo, data lo scarso numero di questi. Le autorità dovrebbero guidare/suggerire delle migliorie da adottare nelle condizioni di lavoro e di sicurezza». Inoltre, «il numero minimo di lavoratori richiesti per registrare un sindacato dovrebbe essere modificato dall’attuale 10% al 30%» e il governo dovrebbe riconoscere soltanto i sindacati lontani da interessi politici, «equilibrati e che assicurino una salutare cultura del lavoro».
Pur considerando che il riconoscimento dei sindacati è oggi uno dei punti centrali di scontro tra operai e padroni, tuttavia, la lotta alla Maruti Suzuki sembra insegnarci che il processo di sindacalizzazione finirebbe con l’oscurare il grado di autonomia mostrato dagli operai. È infatti la forma sindacato stessa a essere messa in tensione nelle diverse fasi di questa lotta, costantemente sospesa tra una forma burocratico-amministrativa e quella di uno strumento flessibile come luogo di organizzazione della lotta e accumulo di forza.
La stessa forma sindacato ha finito per porre dei problemi, sottolineati da Maya John sull’«Economic & Political Weekly» lo scorso gennaio: riconosciuti dallo Stato, i sindacati godono di certi diritti al tavolo delle trattative aziendali. Non a caso molte delle lotte operaie vertono intorno alla registrazione e al riconoscimento dei sindacati, per poi fare i conti con i limiti delle trattative e con la difficoltà per i casual workers di svolgere attività sindacale. La struttura rappresentativa del sindacato farebbe il resto, isolando alcuni lavoratori – gli iscritti – rispetto agli altri, le vertenze aziendali rispetto alle questioni generali del lavoro e i leader rispetto agli iscritti.
È evidente che la battaglia per il riconoscimento del sindacato ha prodotto delle conseguenze sul piano della lotta anche alla Maruti Suzuki. La prima è stata proprio quella di isolare i portavoce, rendendoli personaggi mediatici, esposti alla repressione poliziesca e a quella anche più violenta dei picchiatori convocati di tanto in tanto dall’azienda, ma consegnando loro anche una certa notorietà negli ambienti che contano. L’apice si è dato con l’incontro del giovane leader Sonu Gujjar, 27 anni – «uno di noi», come ci dicono gli operai, un dipendente modello – con gli investitori ‘preoccupati’ per la tensione nell’impianto. Per tutta l’estate del 2011, infatti, i mercati dell’Asia meridionale riflettevano lo stato di agitazione nello stabilimento, con pesanti cali del titolo Maruti Suzuki, una perdita di quote di mercato pari al 5% e di oltre il 16% nel valore delle azioni. Pochi giorni dopo l’incontro, insieme ad altri due lavoratori, Sonu è stato arrestato durante una trattativa guardata a vista dalla polizia. Poche settimane dopo la conclusione dell’ultimo sciopero, in ottobre, dopo il reinserimento di quasi tutti i lavoratori sospesi e la riammissione al lavoro dei casual workers, insieme a trenta suoi colleghi sottoposti a provvedimenti disciplinari, tutti tra i principali protagonisti delle mobilitazioni, Sonu ha lasciato la Maruti Suzuki. Essi avrebbero ottenuto dall’azienda una buonuscita di circa un milione e seicentomila rupie (circa 25.000 euro), oltre al pagamento di salari arretrati, l’equivalente di circa due decenni di lavoro in fabbrica, secondo quanto dichiarato in un’intervista a «Business Standard».
La stampa indiana, che ne aveva fatto un personaggio pubblico arrivando a celebrare la sua buona volontà – «pensava positivo e spronava sempre i lavoratori a produrre macchine migliori», si poteva leggere sull’«Economic Times» – ha ben presto sottolineato il tradimento da parte del leader, l’abbandono dei suoi colleghi in nome del denaro, esagerando i compensi ottenuti per abbandonare la fabbrica. Per alcuni mesi, questa sembrava essere la non troppo edificante fine della lotta alla Maruti Suzuki, anche se all’ombra della diserzione di alcuni rimaneva l’esperienza operaia accumulata in mesi di lotta che per i lavoratori si erano conclusi, se non con una vittoria, senza una sconfitta e senza il sacrificio di migliaia di casual workers, un caso raro nell’incredible India, nuova protagonista tra i BRICS.
Che in ballo non ci fosse solo una difficile trattativa sindacale, ma la condizione operaia, lo si è capito in queste settimane. Dopo la conclusione dell’ultimo sciopero che aveva bloccato gli impianti fino al 18 ottobre, infatti, gli operai hanno ottenuto l’espulsione del MUKU dal tavolo delle trattative e il sostanziale riconoscimento del MSEU. Tuttavia, poco è cambiato nelle condizioni di lavoro. L’organizzazione degli operai non si è fermata come è oggi visibile nell’eruzione del 18 luglio e nei vetri anneriti della fabbrica. Il sindacato, per questi operai, è uno strumento organizzativo in grado di sostenere la mobilitazione che ha radici nelle condizioni di lavoro, non certo un congegno atto alla mediazione: questo sembra suggerire la vicenda della Maruti Suzuki. Un’impressione rafforzata dal grande sforzo della stampa indiana, anche di sinistra, imbrigliata nell’immaginario della vecchia nomenclatura sindacale, che in queste settimane si schiera contro l’azienda, ma senza appoggiare la rivolta operaia, e suggerisce che è nell’interesse comune la creazione di migliori relazioni industriali. Si prenda ad esempio l’editoriale dell’«Economic & Political Weekly» dell’11 agosto 2012, intitolato Imparare dalla Maruti, che si conclude con queste parole: «I vecchi sindacati non sembrano in grado di prendere l’iniziativa. Nuovi sindacati e organizzazioni stanno sorgendo tra i lavoratori. Hanno bisogno di una copertura politica e legale per crescere e maturare. Se questa continuerà a non esserci, se le condizioni di lavoro non miglioreranno, questo porterà soltanto ad agitazioni ancora più ampie nell’industria e anche a scoppi di violenza».
Questa posizione rivela l’imbarazzo di buona parte del sindacato industriale indiano, incapace di cogliere le trasformazioni nella composizione operaia e di tenere il passo con le dinamiche di precarizzazione che hanno coinciso con la svolta produttivista e mercatista degli anni duemila. Le enormi diseguaglianze nel paese e le lotte che lo attraversano non possono essere un alibi per ignorare come nella grande crescita degli ultimi anni l’industria abbia giocato un ruolo di primo piano. Il relativo silenzio che ha accompagnato la lotta alla Maruti Suzuki fino alla recente sommossa e l’impressione d’isolamento che circonda questi operai, la cui condizione materiale è distante anni luce, per fare solo un esempio, da quella dei milioni di lavoratori nei grandi slum-fabbrica delle metropoli indiane come Dharawi, a Mumbai, mostra inoltre quanto sia velleitario pensare che vi possa essere, nella contraddizione dello sviluppo del capitalismo in India, un’avanguardia operaia capace di rovesciare gli attuali rapporti di classe. Tuttavia, sarebbe ugualmente miope non vedere che cosa accade in quella parte di India entrata nel lavoro salariato e i segnali che provengono da questa vicenda.
La complessità e la composizione operaia che rivela forniscono indizi sul significato stesso dell’industria a queste latitudini, dove la messa al lavoro è una posta in gioco costante e violenta, a volte dimenticata da diversi teorici del capitalismo postcoloniale che, concentrandosi sulle dinamiche di spossessamento, hanno preferito porle in contrapposizione con la produzione di lavoro salariato, piuttosto che analizzare la stretta e continua relazione, seppur disomogenea, tra le due, anche in un paese dove la grande maggioranza del lavoro viene erogato in modo informale, lontano da ogni ipotesi di semplificazione sociologica del concetto di classe[2]. Non è, questa, in fondo e costitutivamente, la condizione del lavoro che oggi si mostra direttamente e su scala globale?[3]
Non è la prima volta che dei dirigenti aziendali ci lasciano la pelle per mano operaia, nella vorticosa crescita indiana: ne sanno qualcosa anche i dirigenti del gruppo italiano Graziano Trasmissioni, il cui CEO per la zona di Greater Noida è stato linciato nel 2008. Airtel, Alcatel, Honda, Hero Motors, Samsung, Mitsubishi, Wipro, LG, Alstom, sono solo alcune delle grandi aziende multinazionali che hanno spostato qui parte della loro produzione e che possono contare, oltre che sulla rete infrastrutturale e sugli assemblaggi giuridici particolari all’interno delle SEZ (Zone di esportazione speciale), delle New Town e dei corridor, sugli enormi investimenti nel settore in sviluppo e progettazione, grazie al fiorire di università, centri di ricerca e grandi uffici del settore informazione e comunicazione.
La preoccupazione espressa da tutti i quotidiani economici indiani, dal governo e da molti sindacati alla ricerca di una normalizzazione delle relazioni industriali, non lascia dubbi: l’insubordinazione operaia, da queste parti, fa più paura della violenza e anche del grande blackout che ha colpito il paese alla fine di luglio. Questa paura si esprime nell’evocazione – sull’influente sito in lingua inglese Firstpost.com – dello spauracchio degli scioperi selvaggi e dell’ingovernabilità della forza lavoro, dell’epoca del primo sciopero del tessile a Nagpur, nel 1877, e di quella della «militanza sindacale» degli anni ’80 e di Dutta Samant, mitico leader dello sciopero del tessile di Mumbai del 1982, quando l’intero settore si bloccò per un anno[4]. Per questo, secondo R. Jagannathan, direttore del sito, quanto successo alla Maruti «non è un incidente».
A fare da corollario a questi timori c’è la paura della fine, sulla scia dei dibattiti innescati dalle proteste dei lavoratori, della mano libera ottenuta negli ultimi anni dalle imprese private a tutti i livelli, grazie alle SEZ e all’appoggio della forza pubblica alle pratiche autoritarie. È ancora una volta il passato a essere evocato: «leggi arcaiche sul lavoro ritornano per minacciare il settore dell’Information Technology», titolava il 23 luglio l’«Economic Times». E continuava: «l’industria del software nella capitale tecnologica dell’India (Bangalore), che è stata beneficiata da una sostanziale assenza di attenzione governativa, è preoccupata di finire sotto lo sguardo malevolo di leggi e regolamenti arcani». Quali? L’Industrial Employment Act del 1946, approvato durante la lotta per l’indipendenza, dal quale le imprese sono state esentate per oltre dieci anni, oggi imposto dallo Stato del Karnataka in seguito alle centinaia di denunce di condotta scorretta da parte dei datori di lavoro ricevute dalla commissione lavoro, che fissa le regole per i rapporti di lavoro e richiede alle aziende di «definire con sufficiente precisione le regole di assunzione». Al contrario, spiega un portavoce della Infinite Computer Solutions, un’azienda di medie dimensioni, «noi siamo parte dell’industria IT, e come ogni organizzazione nel nostro settore abbiamo formulato le nostre condizioni di lavoro, linee guida e pratiche, che sono fondate sullo spirito e l’intenzione di realizzare più di quanto vuole realizzare la legge». D’ora in avanti dovranno invece rendere pubbliche le condizioni di lavoro: orari, turni, carichi di lavoro, salari, licenziamenti, regole di condotta fissate e via dicendo. Le compagnie, commenta l’articolo, «temono che questo possa rappresentare un invito alla sindacalizzazione» per un settore che solo a Bangalore occupa un milione di lavoratori.
Dopo il riot del 18 luglio anche l’industria dell’auto discute di nuove norme, con i produttori all’attacco: per aggirare il tema caldo dei casual workers, alla base non soltanto di quanto accaduto alla Maruti Suzuki, ma in tutto il settore negli ultimi anni, infatti, le case automobilistiche puntano a rendere licenziabili i permanent workers. Solo così, sostengono, non dovranno più ricorrere a casual workers e metteranno a tacere i sindacati che su questo stanno facendo una rumorosa campagna. P. Balendran, vice presidente della General Motors India è consapevole che quanto successo alla Maruti Suzuki può, prima o poi, accadere anche nella sua fabbrica. Per evitare questo, ha dichiarato a «Business Standard» commentando gli incidenti alla Maruti Suzuki, «abbiamo bisogno di leggi sul lavoro flessibili». Lo stesso chiede Sethuraman, nell’intervista allo stesso giornale ricordata in precedenza, dove conferma che anche alla Hunday Motor lavorano 5.000 permanent workers, tra i quali vanno però contati anche gli apprendisti, e 3.000 casual workers, impiegati soprattutto nella logistica e nel trasporto di materiale, rifiutandosi di fornire ulteriori dettagli sulle loro condizione di assunzione.
È probabile che saranno ascoltati, poiché – come ricorda Karl Marx citando Adam Smith – «tutte le volte che il legislatore tenta di regolare le differenze fra gli imprenditori (masters) e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre gli imprenditori». Ma che ne sarà del «malessere della forza lavoro» e dell’insubordinazione operaia che attraversa l’industria indiana e minaccia di «diffondersi oltre il settore dell’automobile»?
Alcuni dei vertici del sindacato MSEU, ricercati con accusa di omicidio dopo la rivolta del 18 luglio, si sono arresi alla polizia agli inizi di agosto, altri 167 operai sono ricercati dalla polizia dell’Haryana e sono state denunciate violenze contro gli arrestati, con la connivenza di medici e polizia, che prosegue setacciando le case degli operai che vivevano più vicini alla fabbrica, minacciando le famiglie per farsi dire dove sono i loro figli. In un post su Facebook pubblicato l’8 agosto sulla pagina Citizens Front in support of Maruti Suzuki Workers’ struggle, Rakhi Sehgal denuncia questa situazione e sostiene che la strategia è chiara: arrestare quanti più operai che vivevano vicini alla fabbrica, in modo da mandare un segnale a tutti gli altri e fare terra bruciata intorno. Rompere la solidarietà che lega gli operai agli abitanti dei villaggi circostanti. A conferma di questa tesi anche la denuncia che la polizia, in sostegno agli obiettivi aziendali, sta dando indicazione alle famiglie degli operai di licenziarsi, perché alla Maruti Suzuki non lavoreranno più lavoratori originari dell’Haryana.
La direzione della Maruti Suzuki promette di far ripartire la produzione in tempi brevi, ma questa nuova fase di insubordinazione operaia sembra appena iniziata. Se le aziende automobilistiche avevano pensato di risolvere la conflittualità operaia iniettando dosi sempre maggiori di automazione, la rivolta nell’impianto modello di Manesar, dove un singolo operaio come Maresh, uno dei permanent workers sospesi, poteva controllare anche 70 robot, sta a ricordarci che si tratta di un’illusione. Se il blackout non potrà che aprire la strada a nuovi investimenti infrastrutturali sul piano dell’energia e nuove liberalizzazioni, anticipate dalla nomina dell’ex ministro all’energia Sushil Kumar Shinde alle finanze, la frontiera dello sviluppo capitalistico in India è anche qui, nella «bomba a orologeria del lavoro», come è stata recentemente definita in un articolo su Bloomberg.com.
Questo accade negli avamposti della frontiera, dove – come ci dice con toni paternalistici un attempato funzionario del’AITUC, la grande centrale sindacale comunista, a margine di un’assemblea davanti ai cancelli della fabbrica – «gli operai devono conquistarsi ogni basilare diritto». È uno stimato dirigente, piuttosto gentile, e ci offre un passaggio per tornare a New Delhi nella sua auto di servizio. Una classica Ambassador bianca, senza aria condizionata, ma con piccoli ventilatori per ogni passeggero, diversa tanto da quelle dei manager dell’industria quanto dai mezzi collettivi utilizzati dagli operai. Quando gli dico di essere italiano, non manca di osservare che da noi, invece, «gli operai lottano solo per difendere ciò che hanno». Guardando ai suoi omologhi nostrani, viene quasi da esser d’accordo con lui, se non fosse per l’inadeguatezza e l’impossibilità della difesa, ma vale la pena abbassare lo sguardo: siamo sicuri che nel labirinto della precarietà la frontiera sia così lontana?
*L’autore ringrazia Ishita Dey e Sahana Basavapatna per avergli permesso di arrivare a Manesar e di parlare con gli operai della Maruti Suzuki.
[1]
Questo tipo di sviluppo ha diverse analogie con quanto accade in Cina dove l’alleanza tra la popolazione locale, che beneficia delle attività di servizio alla forza lavoro migrante, e il padronato interessato alla gestione del tempo della riproduzione, sembra sempre più stretta; sull’argomento vedi A. Chan – R. Madsen – J. Unger Chen Village: Revolution and Globalization, Berkely & Los Angeles, 2009.
K. Sanyal, R. Bhattacharyya, Beyond the Factory: Globalization, Informalization of Production and the New Locations of Labour, «Economic and Political Weekly», 44 (2009), n. 22, pp. 35-44
R. Samaddar, Primitive Accumulation and Some Aspects of Work and Life in India in the Early Part of the Twenty First Century, Mahanirban Calcutta Research Group, 2008.
[4]
Sullo sciopero di Mumbai, il più lungo che il movimento operaio abbia mai affrontato negli ultimi decenni, B. Patankar B., The Bombay Textile Workers’ Strike of 1982: The Lessons of History, «The Bulletin of Concerned Asian Scholars», 20 (1988), pp. 54-56; S. Lakha, Organized Labor and Militant Unionism: The Bombay Textile Workers’ Strike of 1982, «The Bulletin of Concerned Asian Scholars», 20 (1988), pp. 42-53.